Praga
ENZO E JOHANNA: INCONTRO AL BIVIO
di Emanuela Nobile Mino
(…) Ci sono dei momenti che ci toccano. Tutti possono partire da strade molto lontane e poi c’è un bivio che unisce tutti. Un bivio in cui bisogna fare molta attenzione, ma io sono molto fortunato perché mi trovo spesso in questo bivio insieme ad altre creature. Questo diventa un momento di resistenza molto speciale che tu hai modo di vedere attraverso lavori contemporanei che sono i più rasserenanti possibili.1 (Enzo Cucchi)
E’ in seguito a contingenze occasionali, straordinarie e che rivelano una speciale congiunzione di intenti e intendimenti che nasce in Enzo Cucchi il desiderio, sporadico, di esporre il proprio lavoro, accostare i propri simboli, il proprio immaginario a quello di altri (artisti, architetti, designers – come Ettore Sottsass, Alessandro Mendini – stilisti o fotografi - come Mario Giacomelli). Lasciando che, in modo assolutamente naturale, i loro diversi alfabeti espressivi - se vogliamo addirittura, a volte, contrastanti per vocazione, per attitudine, per natura – trovino un punto d’incontro in quello che l’artista stesso definisce “bivio”, di fronte al quale l’autorizzazione a procedere è data loro proprio dall’accidentalità del rendez-vous e, paradossalmente, dalla comune predisposizione a coalizzarsi sull’incongruenza delle loro specificità.
E’ in tal modo che è nata anche l’idea di questo progetto praghese. Ancora una volta, spontaneamente costruitasi sullo slancio di suggestioni reciproche, quelle di Enzo per la disciplina ingegnosa di Johanna e, viceversa, quelle di Johanna per la visionaria assennatezza di Enzo.
E’ su una linea di intervento, che definirei delinquenziale, che Enzo e Johanna si trovano. Entrambi sempre in attesa che l’ovvietà si presenti loro, entrambi sempre pronti a dissuaderla, a combatterla, a rimuoverla.
Ed è proprio la punta di “banditismo” che il loro lavoro esala ad aver creato l’intesa, ad averli fatti incontrare in corrispondenza del famoso bivio, come due “bravi”: impugnando ognuno l’arma più conforme alla propria missione e alle rispettive responsabilità, hanno deciso di compiere insieme questo agguato. .
Nel 2001 Enzo Cucchi inizia a lavorare ad una serie di opere in ceramica: vasi e urne. In totale 23 esemplari. I lavori che, a mano a mano, l’artista porta a compimento hanno la forgia, l’allure, il physique du rôle di vere e proprie sculture. Osservandoli, sebbene denominati da Cucchi stesso in base alla loro precipua ed intrinseca funzione - intitolandoli, appunto, vasi e urne e immaginando per ognuno di essi una cavità preziosa e sorprendentemente rifinita - credo che a pochi verrebbe in mente di riempili d’acqua e di introdurre fiori negli orifizi predisposti; tanto meno di accoglierli in casa con l’intento di riporvi un giorno le proprie ceneri (anche se, onestamente, non riesco ad immaginare sepoltura più lussuosa). Almeno per quanto mi riguarda, ho fin dall’inizio percepito questi lavori come modellini di architetture fantastiche, miniature di monumenti eccellenti. In generale, le opere di Enzo hanno da sempre suscitato in me l’idea di rappresentazioni di luoghi reali, possibilissimi, che lui stesso da qualche parte doveva aver visto, percorso. Certi luoghi, già quando li “ricorda” nei quadri, nei disegni, sembrano recuperare la concretezza di spazi ambientali, di territori percorribili (fisicamente, mentalmente). E, se un grande respiro architettonico è percepibile sul piano bidimensionale, figuriamoci quando le ambientazioni prendono corpo in volumi a se stanti.
Nella tridimensionalità delle ceramiche, il valore immaginifico del suo segno sembra portarsi all’ennesima potenza e, finalmente, le sue visioni mostrano una via d’accesso concreta che addirittura invita a spingersi all’interno dell’opera (un tunnel, piuttosto che una fessura tagliata nel vivo della superficie piatta della terracotta o un abissale bocca di un pozzo).
Johanna Grawunder, da architetto, deve aver intuito l’eccezionalità dell’evento e ha sentito la necessità di avvicinarsi quanto più possibile a queste micro-architetture, deve averne percepito la qualità di emozione e ne è rimasta, inevitabilmente, sedotta. E, da designer coraggiosa qual è, ha scelto di spartire con esse il momento più delicato: la messa in opera. Da qui, l’idea di regalare loro delle fondamenta, le più idonee, non intuendo una labile stabilità della struttura dei loro volumi ma, al contrario immaginando che la loro intrinseca solidità potesse essere idealmente confermata se enfatizzata da impalcature mobili, luminose, fluorescenti, in grado di alludere, in qualche modo, ad un archetipo di città contemporanea ideale, autosufficiente, dinamica, e capace di adattare la sua planimetria e la sua crescita ad un luogo piuttosto che ad un altro, trovando sempre e comunque una giusta intersecazione con lo spazio.
Nel complesso, le opere dei due autori, di natura apparentemente così diversa, sembrano essere state scritturate per concorrere alla creazione di una nuova visone paesaggistica. Il binomio Cucchi/Grawunder, ripetuto ben quindici volte (15 mobili per 15 ceramiche) all’interno della sala espositiva (la cappella cinquecentesca attorno alla quale si sviluppa l’Istituto Italiano di Cultura di Praga) tende infatti a ricomporre in un interno una sorta di immaginifico paesaggio urbano senza tempo. La visione che i due autori insieme hanno progettato, se da un lato restituisce la proiezione di molte suggestioni che appartengono al concreto retaggio visuale della contemporaneità (la luminosità diffusa, artificiale, costante che schiarisce le notti metropolitane, la progettazione più avveniristica Made in Japan (la città verticale), ma anche la struttura della città moderna e la sua progressiva perdita di un centro, il proliferare di differenti patterns in cui si identificano differenti realtà), dall’altro, e allo stesso tempo, incarna l’utopia che l’uomo insegue fin dal Quattrocento, ovvero la definizione di un paesaggio costituito da isole abitative autonome, indipendenti, perfette, definite e protette da confini precisi, e la cui unica sfocatura appartiene all’aura evanescente del loro gene sotterraneo, potenzialmente e costantemente votato all’espansione e alla collaborazione tra forze equivalenti.
In un certo senso il progetto, fondendo storia e contemporaneità, utopia e realtà contingente, non solo propone la visione di una prospettiva ulteriore e alternativa dello spazio (espositivo, sociale, cosmico) ma ribadisce e mette in risalto i rispettivi caratteri dei suoi inventori: da un lato, il lirismo di Cucchi, il potere evocativo della sua opera, il suo continuo commettere incursioni nel passato e la sua facoltà di resuscitare ideali assoluti per poter interpretare in modo disincantato il presente; dall’altro, il credo progressista della Grawunder, il suo sguardo limpido sulla contemporaneità, la sincronia impeccabile e impavida non solo con le mutazioni della città e, di conseguenza con i bisogni di chi la vive, ma anche con i sintomi che preannunciano la rivoluzione del gusto, delle esigenze, del living, inteso come forma di benessere ricercato, funzionale e in sintonia con i canoni estetici e i magnetismi propri della città che, una “perfect flaneur” 2 come lei, sa ben riconoscere.
Ed è unicamente dal raffronto, dalla “scintillazione magnifica” che emerge dall’incontro tra ossessioni ed equilibri distinti, tra differenti significati veicolati da ognuno degli elementi posti a reciproco contatto, a rendere possibile l’individuazione di nuove metafore e permette il proliferare di panorami nuovi, straordinari e arricchiti da contenuti “extra”. Un orizzonte nuovo, insomma, che sprona a guardare oltre, rinnovare il pensiero, a rinfrescare la memoria e, allo stesso tempo, a trattenerla negli occhi.
A questo punto tutto può succedere. Anche le ipotesi di percezione di entrambe le ricerche possono apparire infinite. La congiunzione, in qualche modo, libera gli schemi conoscitivi e mette a fuoco nuove intuizioni. E, in questo caso, sottolinea due aspetti “speciali” del lavoro di entrambi i suoi protagonisti, rivelando una loro inedita complementarietà, al limite dell’inversione di ruolo: da un lato l’enfasi architettonica e la singolare qualità di vigore che il segno di Cucchi raggiunge una volta tradotto nella corpulenta tridimensionalità della ceramica, derivando dalle sue mani infinite ipotesi di modelli progettuali, perfino, per l’appunto, architettonici; dall’altro il valore pittorico e trascendente che i volumi geometrici della Grawunder possono arrivare a suggerire grazie alla luce, colorata ed evanescente, che sfoca e addolcisce i profili dei suoi mobili, facendoli avvertire, nella penombra, come translucidi piani bidimensionali che, agevolmente, sembrano intersecare lo spazio e, contemporaneamente, venire da questo attraversati.
“Semplificare è un lavoro difficile ed esige molta creatività” 3 (B. Munari)
Johanna Grawunder questo concetto lo ha appreso bene, come ha imparato bene, da Ettore Sottsass, che affinché la creatività si traduca in qualcosa di sensato è necessario “partire sempre da terra, dalle cose, dall’esperienza, dall’uomo e non da un pensiero astratto o da un’idea” 4.
Johanna è da tempo che sfida le regole del design, divertendosi a crearne di nuove. L’accostamento inedito tra prodotti industriali (neon, vernici fluorescenti, laminati plastici) e materiali più nobili o quantomeno più ricercati (ceramica, perspex, vetro, acciaio inossidabile), non la spaventa, come non la spaventano le sperimentazioni sulle forme, i tentativi di smaterializzarne la fisicità (come nei mobili luminosi) o quelli invece atti ad amplificarla (le lampade che o si allungano fino a divenire pareti di luce o si mimetizzano facendosi parte integrante del soffitto o del pavimento). Rischia molto, da sempre, in particolare da quando ha scelto di trattare la luce come elemento costruttivo, al pari del legno, dell’acciaio, della plastica, sebbene con funzione apparentemente contraddittoria alle leggi architettoniche dell’edificare (aspirando a dissimulare anziché rivelare la forma), ma lasciando così accesso allo spazio, in modo che questo venga automaticamente investito, penetrato e reso partecipe e non funga semplicemente da cornice ai suoi interventi. Tutto questo costituisce la dieta quotidiana di Johanna, il suo modo esclusivo di assecondare la pluralità del proprio tempo, di assorbirla e restituirla marchiata, di sondare gli effetti e gli esiti del creare interferenze, con l’intento e il proposito di non continuare solamente, e passivamente, a subirle. Ma, di adottarle, farle proprie, derivando da queste il suo personale linguaggio. Semplice, schietto, comprensibile ma allo stesso tempo macchinoso perché aulico, colto e talmente ponderato che anche lo slang (che nel suo caso vuol dire assorbire nell’opera idiomi e codici della strada, immagini quotidiane, sovrapporre superfici catarifrangenti alla ceramica) può apparire perfettamente calzante nell’espressione di una forma. Operazioni che sorprendono sì, al pari dell’errore, della piccola sproporzione, dell’andamento sbilenco, di un vuoto inatteso. Ma è qui che risiede la sua ironia, la sua abilità nell’assumerla per alternarla, con armonia, all’austerità.
“E’ importante rendersi conto che qualsiasi cosa si fa o si disegna, ha riferimenti iconografici, cioè viene da qualche parte, qualunque forma è sempre metaforica, mai totalmente metafisica; non è mai un “destino” è sempre un fatto che ha in qualche modo riferimenti storici che si possono comunque ricavare. Mettere un oggetto su una base vuol dire immediatamente monumentalizzarlo, rendere tutti consapevoli che quell’oggetto lì esiste” 5. (E. Sottsass
Enzo, da parte sua, opera addirittura andando oltre questa asserzione, facendo indistintamente appello alla storia, alla tradizione, al mito, al presente, all’attualità, ai miraggi della contemporaneità. Costruisce così il suo alfabeto espressivo su una serie di segni e presenze enigmatici, che indagano e si confrontano continuamente e indistintamente con micro e macrocosmo, con tematiche universali (l’umanità, la classicità, la reminescenza, la rappresentazione) e, allo stesso tempo, con questioni interiori (la spiritualità, l’ambiguità, la morale, i moralismi). La sua sperimentazione è spericolata, ma allo stesso tempo coscienziosa, perché non muove dalla curiosità ingenua, dall’attrazione epidermica verso un materiale e verso le possibili soluzioni formali che la sua opera può derivarne, ma parte dall’esigenza di trovare nuove risposte a quelle domande che l’uomo ciclicamente si pone, e lo fa con tutti i mezzi che ha a disposizione. Avendo piena fiducia nelle cose eterne, si affida ciecamente alla memoria, che risponde, guida, smuove e che può infondere alle sue rappresentazioni una serie di nuovi spunti, di nuovi quesiti. La ceramica - materiale tra i più antichi e disciplina tra le più sincere - proprio per questo lo ispira, perché è un punto fermo, ha attraversato la storia, ha resistito a molte cose, ha “sopportato” tanto, è navigata, non sa mentire, non ne ha bisogno, e chi la affronta sa che non può permettersi di farlo con lei.
Per una strana coincidenza, la ceramica è stata una sorta di leit motiv dei nostri incontri professionali, a partire dal primo.
“Una caduta di oggetti non identificabili si è abbattuta su Roma…tanto forte …che può essere un’azione di origine criminale”. 6 (Enzo Cucchi)
E’ sullo sfondo di pensieri di questa portata che ho incontrato per la prima volta Enzo Cucchi.
Mi occupai personalmente di assisterlo durante le fasi di installazione di una delle sue prime grandi opere in ceramica: due imponenti gambe le cui caviglie erano avvolte da un laccio luminoso e bloccate nell’atto di solcare il polveroso terreno dell’area archeologica del Foro di Nerva a Roma. Una presenza possente che si ergeva sullo scenario decadente delle rovine con un piglio quasi sovrannaturale, come un frammento, verde brillante, di un corpo fuori misura - a metà tra un kouros greco e un colosso romano - che sembrava accidentalmente precipitato sulla città come una meteora proveniente da chissà quale ignota costellazione. Conseguenze della “caduta”, il ginocchio slogato e, su una coscia, una sorta di cerotto su cui erano impressi tre volti (rimando simbolico al racconto dell’archeologo egiziano Zahi Hawass, secondo il quale la visione in sogno dei suoi colleghi scomparsi era stata provvidenziale per lo sviluppo della sua ricerca). Era il 1999. Poco tempo dopo, Sottsass pensò per quelle gambe una diversa sistemazione, una nuova storia: le immaginò ribaltate ed immerse in una pozzanghera di lamiera ondulata smaltata in nero limousine su cui galleggiavano altri “trafilati di ferro tagliati, pezzi di tubo, scatolette di ferro saldate…”, nasceva così “La ragazza è affogata nei frammenti di acciaio” 7. Tra il 1999 e il 2000, una nuova avventura, quella condotta per il monumentale pannello ceramico realizzato ad hoc da Enzo Cucchi per l’Ala Mazzoniana della Stazione Termini a Roma8, uno degli omaggi d’artista alla città tra i più forti ed emozionanti, ancora oggi. Un mare di maiolica inquieto, le cui increspature si impennano in corrispondenza del centro dell’opera a causa del grande solco verticale che lo taglia da parte a parte a mostrare la terra, e da cui piccoli teschi appaiono in procinto di eruttare al di là delle onde. Di quella esperienza, durata circa un anno, esiste una preziosa testimonianza: un libricino progettato dall’artista come un taccuino tascabile che raccoglie appunti visivi e scritti attraverso i quali è possibile ripercorrere, passo passo, l’intera impresa (dalla fase progettuale all’intensa operazione di modellamento, dai viaggi a Vietri fino alla non semplice messa in opera) 9. Successivamente, nella mostra personale “Quadri al buio sul mare Adriatico” 10 presso il Centro di Arti Visive di Pesaro, ancora una volta, la ceramica assumeva nell’economia del suo progetto un ruolo significativo, quasi predominante, sebbene i cinque pannelli in terracotta, presentati per la prima volta in quella occasione, dovevano dividere la scena con l’eminenza altrettanto autorevole delle tele sistemate nell’aula adiacente, nell’ex Chiesa del Suffragio. Questa serie di opere, rispetto alle precedenti, dimostrava più che una differente trattazione del materiale, un diverso approccio dell’artista con la materia e soprattutto la decisione di affidarsi ad essa in maniera totale. Era stata, evidentemente, l’intuizione che la superficie ruvida della ceramica biscottata e lasciata al naturale poteva perfettamente adempire al dovere, in precedenza consegnato al colore, di marchiare e rendere vibrante l’epidermide superficiale delle opere. Questa volta, infatti, Cucchi si astenne quasi completamente dall’assumerlo. Anomala privazione per un artista che al timbro cromatico affida generalmente la devastante rivoluzione del suo segno. E, a parte l’antracite degli inserti in ferro, si concesse solo alcuni, necessari, interventi in nero e in bianco/Cucchi - buio e luce abbacinante - fattori atmosferici più che cromatici, gli unici in grado di competere con l’egemonica naturalezza della terracotta.
Da lontano ho osservato, più o meno nello stesso periodo, alla nascita del progetto editoriale I Disuguali11, uno dei prodotti più accattivanti e rivoluzionari scaturito dalla vulcanica collaborazione tra Enzo Cucchi ed Ettore Sottsass. L’edizione periodica di una rivista più che speciale: ogni numero prevede la realizzazione di quattro tavolette in ceramica (cm 23x7 ognuna) contenute in un astuccio di legno, con il coperchio scorrevole, come quelli di una volta. Una raffinatissima pubblicazione di pregiati esemplari a tiratura limitata che fino, ad oggi, ha raccolto gli interventi di artisti internazionali, designers e intellettuali (Barbara Radice, Mimmo Paladino e Giorgio Celli, Alex e Vincent Katz, Robert Moskovitz). Su questa linea sono impostati anche i prossimi numeri (affidati ad Ettore Spalletti e Mimmo Jodice). Per il numero 1 (inaugurato dai due ideatori del progetto) Cucchi ha concepito una serie di piccole lastre lavorate con minuziosa apprensione: una sorta di story-board i cui singoli frames sembrano, potenzialmente, costituire l’incipit di tante singole narrazioni volutamente troncate, che si raccordano o censurano vicendevolmente, come i capitoli di un racconto in fieri.
Poco dopo, un altro monumento, un’altra sfida. Il progetto per la stazione Salvador Rosa, progettata da Mendini, nella metropolitana di Napoli. Un ulteriore approfondimento/rivoluzionamento dell’utilizzo della ceramica. Un grande sipario in ceramica rosso fuoco a guardia dell’ingresso a nord e quattro pannelli per il lucernario in corrispondenza dell’accesso a sud. In particolare il sipario, che troneggia sulla scala mobile ed è concepito come ricco panneggio atto ad occultare e, all’occorrenza, a svelare, rappresenta in modo esemplare l’idea del tempo, la sua globalità (l’eternità). Passato, presente e futuro sembrano fondersi nell’emblema di quella enigmatica tenda rossa che è lì a segnare un confine, ma anche una via d’accesso, che sembra dividere, ma anche raccordare. Un bivio, insomma.
“All’uomo sensibile e immaginoso, che vive…scrutando di continuo e immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi” 12 (G. Leopardi)
La convinzione che l’equilibrio e il senso appartengano esclusivamente ad un mondo che si fonda sul costante ampliamento delle sue prospettive (temporali, spaziali e ideologiche) emerge in modo esplicito e convinto anche in questo ultimo ciclo di lavori in ceramica.
Dalla prima all’ultima, le ceramiche di Cucchi illustrano, con un tono tra il fiabesco e il parabolico, la storia universale dell’uomo: ripercorrono i suoi valori primari (quelli atavici e quelli più recenti), incarnano le sue naturali propensioni (da quelle istintive a quelle più altamente spirituali) e costruiscono la visione globale ed eterna del suo divenire, del suo contraddirsi, reiterarsi, indagare. Esplicitati secondo un’alternanza casuale, perché è così che si verificano, ecco allora dipanarsi i simboli in cui l’artista identifica le molteplici sfaccettature dell’animo umano e le differenti direzioni tra cui è socialmente portato ad operare una scelta: il sacro, il profano, la cultura, l’istinto, la natura, il progresso, la forza, la debolezza, la vita, la morte. Nell’ottica e nella pratica artistica di Enzo Cucchi queste opzioni di scelta appaiono enunciate all’unisono, mostrate una accanto all’altra come proiezione naturale del mondo fenomenico, a sfatare la deprimente convinzione che l’uomo debba essere obbligatoriamente portato ad essere questo o quello, ignorando che la storia è essa stessa la trascrizione di sintomi e di inclinazioni plurimi e compresenti. E quindi è così che il Vaso Arrapato può convivere con il Vaso Apostolo, il Vaso Alfabeto con il Vaso Internazionale, l’Autopelo con il Vaso a piedi, e così via di seguito: Vaso al calore del sole con Vaso Lago con Vaso Muscolare con Vaso da muro duro con Vaso della passione con Vaso botanico per andare verso il sole con Vaso addormentato con Urna I con Urna II.
Questo è, in definitiva, il paesaggio che la mostra costruisce e questo il messaggio che intende suggerire, lasciando intravedere, tra la penombra e la fluorescenza, non solo un nuovo ideale prospetto di città, ma anche una più lucida e coerente prospettiva della realtà.
Questa la conseguenza di un incontro al bivio, perchè il bivio è sì un punto di biforcazione, ma è anche la piattaforma da cui osservare il mondo nella sua totalità; e da questa postazione può apparire lecita anche la più azzardata delle affermazioni, basta sovvertire per un attimo l’idea dell’assunto precostituito, sospingere lo sguardo oltre l’apparenza, scrutare oltre il parametro. Sarà allora facile ravvisare nella figurazione di Enzo Cucchi un piglio tanto irriverente quanto, paradossalmente, iconoclasta, mentre nell’astrazione geometrica di Johanna Grawunder un’espressività per certi versi pittorica e sorprendentemente rappresentativa.
“L’esperienza artistica moderna si sviluppa essenzialmente lungo due binari la “grande astrazione e il “grande realismo”: essi aprono due vie che convergono in ultima analisi verso un unico fine” 13 (W. Kandinsky)
E.N.M.
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Note
1 Tratto dall’intervista di G. Di Pietrantonio ad Enzo Cucchi, in Nati in un fosso. Mario Giacomelli e Enzo Cucchi, cat. mostra presso La Fabbrica, Losone (Svizzera) 2003, a cura di A. Ria, Edizioni Le Ricerche, Milano 2003
2 Secondo Walter Benjamin (e la sua rilettura del concetto di flaneur espresso da Baudelaire in “Paris”) il flaneur contemporaneo (city walker) è una figura che non ha niente a che vedere con il turista, lo shopper, il camminatore instancabile, vittima della folla, strumento del capitalismo. Il flaneur moderno è colui che entra in stretta relazione con la città, costituendo quasi una sua componente strutturale, architettonica. E’ colui che trae piacere dalla fretta e dal trambusto delle strade della città, che con occhio da artista si muove di proposito attraverso la folla cittadina pur distinguendosi da questa: uno spettatore attivo della vita contemporanea e degli scenari urbani, uno scrittore più che un lettore delle trame della città.
C. Baudelaire, Paris spleen, L. Varèse (trad.), New Directions, New York 1970
W. Benjamin, Charles Baudelaire, H. Zohn (trad.), Verso, Londra 1997; The arcades project, H. Eiland & K McGlaughlin (trad.) 1999
3 B. Munari, Da cosa nasce cosa, Laterza editori, Bari 1988
4 B. Radice, Ettore Sottsass, Electa, Milano 1993
5 idem
6 la frase compare sul disegno pubblicato nel catalogo Giganti – Arte Contemporanea nei Fori Imperiali, mostra a cura di L. Pratesi e A. M. Sette, testi dei curatori e di E. Nobile Mino, Fratelli Palombi Editori, Roma 1999, in riferimento all’opera presentata in mostra
7 descrizione di Ettore Sottsass della base in lamiera da fare realizzare come nuova sistemazione per la ceramica dell’artista. L’opera è stata esposta nel 2001 presso la Galleria Civica d’Arte contemporanea di Siracusa Montevergini in occasione della mostra Enzo Cucchi e Ettore Sottsass; cfr. Enzo Cucchi e Ettore Sottsass, cat. mostra, testi di R. Giustini, S. Lacagnina, B. Radice, Ed. Charta, Milano 2001
8 Il pannello ceramico Solco (m 10x10) costituisce opera permanente ed è stato realizzato presso V. Santoriello di Vietri sul Mare (Sa) in occasione del Giubileo del 2000
9 P. Magni, E. Nobile Mino, L. Pratesi, Il solco, pubblicazione realizzata in 1.500 copie dalla Galleria Roberto Giustini, Roma (fotografie di Sabina Di Pasquale e Andrea Malizia)
10 cfr. Quadri al buio sul Mare Adriatico, cat.; testi di L. Pratesi e E. Nobile Mino, Ed. Charta, Milano 2001
11 Edizione periodica di cultura della Galleria Roberto Giustini di Roma. Ogni numero è tirato in 50 esemplari numerati e firmati. La realizzazione degli esemplari è avvenuta presso alcuni dei principali luoghi storici di produzione ceramica italiani (Gatti, Faenza; V. Santoriello, Vietri sul Mare (Sa); Marioni, Calenzano (Fi)
12 G. Leopardi, “Zibaldone di Pensieri”, in Opere, Tomo II, Riccarsi, Milano-Napoli 1975 p. 153
13 W. Kandinsky, Lo Spirituale nell’Arte, Milano 1989